Parliamo di giovani. In questi ultimi mesi la discussione politica e dei media ci ripropone la parola sacrificio collegata alle nuove generazioni e al loro rapporto con il mondo del lavoro. Sintetizzando, con molta superficialità, accusiamo i nostri giovani di non avere voglia di lavorare, visto anche il mismatch tra offerta e domanda di lavoro che vede tanti imprenditori avere serie difficoltà a reperire le risorse umane necessarie… ma non è così!
Ad essere cambiati non sono la voglia o il bisogno di lavorare ma, piuttosto, l’essere disposti a farlo a determinate condizioni. Possiamo anche aggiungere che il lavoro non è la sola ragione di vita e felicità per le giovani generazioni ed è fondamentale trovare un senso in quello che si fa.
Giovani e boomer, generazioni a confronto
Da una parte ci sono i Boomer e la Generazione X (i nati tra il 1946 e il 1980) che, in un contesto di crescita economica, vedono il lavoro come un obbligo per mantenersi e fare carriera. Dall’altro lato abbiamo Millennial e Generazione Z (i nati tra il 1981 e il 2012) che, nel contesto economico e sociale in cui sono cresciuti, vedono il mondo come qualcosa di precario; il lavoro non viene più concepito come il solo strumento di realizzazione personale.
Tutto è più complicato perché siamo nel bel mezzo di un grande cambiamento sociale e quindi le vecchie regole non valgono più: dire che per il lavoro passano la nostra realizzazione, le nostre soddisfazioni e la nostra felicità, ha forse senso per chi ha già superato la soglia anagrafica dei 45/50 anni, ma non ha più senso per le generazioni più giovani alle quali abbiamo lasciato un lavoro che spesso è tossico, precario, con scarse possibilità di crescita, pagato poco o niente e a cui chiediamo di “amarlo”, di sacrificarsi per questo.
Nemmeno lo studio e il raggiungimento di una laurea permettono più di prendere quell’ascensore sociale che dal dopoguerra in poi permetteva ai figli di migliorare la propria posizione sociale ed economica rispetto a quella dei genitori.
Inoltre, ci sono città in Italia che non consentono ad un giovane che ha uno stipendio medio di viverci e di rendersi indipendente dalla propria famiglia. L’affitto in città come Roma o Milano richiede gran parte dello stipendio; è ormai normalità vedere un giovane vicino ai 30 anni, con laurea e magari anche un master, che lavora per pagarsi una camera in un appartamento condiviso con altri coinquilini.
Verso modelli alternativi
Quello che sta accadendo oggi, con tutte le ripercussioni future, ci rivela che in questa fase di passaggio i modelli e i valori che regolano il mondo del lavoro evidenziano dei grossi limiti ma il o i nuovi modelli alternativi devono ancora essere costruiti.
Qualche timido segnale c’è e sempre più aziende si rendono competitive adottando politiche che prevedano più flessibilità, orari di lavoro adatti a conciliarsi con le esigenze personali e familiari, nuove formule di work-life balance ma la strada da percorrere è ancora lunga.
Sicuramente i giovani non vogliono “stare sul divano” a non fare nulla; i giovani hanno bisogno di esprimere la loro creatività e di avere diritto ad una dignità morale ed economica che permetta loro di dare significato alla propria vita.
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